Prof. Pietro Cataldi: Abbiamo bisogno di rileggere Dante con occhi nuovi

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Numero 36/2021

Prof. Pietro Cataldi

Gentile prof. Cataldi, Lei è da anni un caro amico di Literaturen vestnik, e ora siamo felici di averLa come ospite nel nostro numero speciale dedicato ai 700 anni dalla morte di Dante Alighieri. Ritiene che oggi Dante possa risultare poco comprensibile per le giovani generazioni e che per questo sia opportuno leggerlo piuttosto attraverso parafrasi e adattamenti? Ci sono polemiche in Italia per quanto riguarda la sua presenza nei programmi scolastici? Qual è la Sua visione sulla cosiddetta “traduzione” in linguaggio moderno dei classici in generale?

La sua domanda pone una grande questione. Partirei da tre premesse, per giungere rapidamente a una conclusione problematica e aperta, oltre che provvisoria.

Prima premessa. Noi tutti abbiamo formato la maggior parte del nostro sapere su testi tradotti. Abbiamo letto in traduzione la Bibbia e magari il Corano, per lo più i classici greci e latini, le Mille e una notte e i grandi romanzi russi, e quelli in varie altre lingue che conosciamo troppo superficialmente, i filosofi e i saggisti, i politici e i divulgatori di scienza… Senza le traduzioni e senza formarci sulle traduzioni, la nostra personalità umana e culturale sarebbe gravemente impoverita.

Seconda premessa. Per quello che riguarda l’Italia, fino a pochi decenni fa la lingua utilizzata dai classici della letteratura nazionale risultava raggiungibile ai lettori colti, ed era alla portata dei ragazzi delle scuole. Avevano studiato il latino e magari il greco, frequentavano testi letterari fin dalle classi iniziali delle medie o perfino alle elementari, e leggevano per conto loro i romanzi di Pavese e le poesie di Rimbaud (tradotte). In molti continuano a fingere di credere, o perfino a credere davvero, che sia ancora così; un po’ come Dante credeva che la sua lingua fosse in continuità con quella di Virgilio. Ma le cose sono invece cambiate radicalmente, e l’italiano di Boccaccio e di Machiavelli è oggi una lingua lontanissima dall’italiano standard parlato: quello dei ragazzi e quello dei loro stessi professori. Una lingua così lontana da richiedere, per essere capita, una vera e propria traduzione, anche se a scuola la si chiama “parafrasi” per non evocare il peso anche tragico di questa distanza.

Terza premessa. Negli ultimi settant’anni la letteratura è andata perdendo progressivamente importanza, a vantaggio di altre forme di comunicazione e di espressione: il cinema, la televisione, il fumetto, ecc. Il prestigio che giustificava l’impegno richiesto dalla lettura di Dante e degli altri classici si è assottigliato, e la centralità della letteratura resiste nella scuola soprattutto per il tradizionalismo che la segna, ma deve essere ripensato e rimotivato.

Ed ecco la conclusione provvisoria. Io credo che si debba essere realistici, e coraggiosi. In nome della prima premessa, possiamo credere che la lettura dei classici possa avvenire anche per mezzo di traduzioni; in nome della seconda premessa, dobbiamo capire che in alcuni casi è necessario farlo. In nome della terza, infine, è nostro dovere interrogarci sulla funzione oggi della letteratura come esperienza formativa, e trovare nuovi argomenti non invecchiati e inefficaci. Magari Dante, il Dante della Commedia, non ha sempre bisogno di traduzioni: perché ha una struttura concentrata e in genere un periodare non troppo complesso. Ma ne hanno spesso invece bisogno i prosatori antichi (Dante e soprattutto Boccaccio, ma anche Machiavelli), portatori di una dominante ipotattica con molti gradi di subordinazione, e disposizioni prolettiche, del tutto aliene alle capacità di lettura di oggi, soprattutto quando non si sia studiato il latino; direi anzi aliene dalla forma mentis paratattica che domina la contemporaneità.

D’altra parte non credo che giovi proteggere il feticcio dell’originalità, se vogliamo salvare il nucleo di “verità” del quale i grandi testi sono portatori. Al contrario, perché quella verità, che è storica e relativa, possa sopravvivere, e dimostrare di essere degna di farlo, dobbiamo essere capaci di trovare forme storiche e relative anch’esse per mezzo delle quali proteggerla e trasmetterla. Le traduzioni sono fra le più efficaci.

 

Quest’anno interi scaffali nelle librerie italiane sono pieni di nuovi studi e saggi sulla Divina commedia. Ci potrebbe indicare un lavoro che L’abbia particolarmente impressionato?

Credo che per rispondere convenga aspettare almeno un anno ancora. Certo, già si può dire che ben vengano i libri su Dante di storici, che portano un contributo concreto alla “danteide”, trasportando una certa mitologia su un piano di documentazione, e ben vengano incursioni di scienziati e filosofi, che arricchiscono la nostra sensibilità; mentre sono da esecrare e rifuggire le improvvisazioni di giornalisti temerari in cerca di facile successo. Ma soprattutto io aspetto con curiosità nuovi commenti (e perfino nuove edizioni del testo), che stanno uscendo e usciranno; perché abbiamo bisogno di rileggere il testo con occhi nuovi. La speranza, sempre, è che siano occhi davvero nuovi e non solo saturi di quanto già scritto da altri commentatori: Dante e la dantistica fanno giustamente paura, e avventurarsi in terre nuove scoraggia. Ma se non troveremo il coraggio di avventurarci, temo che sarà peggio per Dante e soprattutto per noi.

 

Pochi giorni fa si è concluso il Suo mandato come Rettore dell’Università per Stranieri di Siena. Qual è il Suo resoconto? È più difficile oggi soddisfare le aspettative degli studenti?

Guidare un ateneo, sia pure piccolo (meno di tremila studenti), è stata un’esperienza molto intensa. Ne esco sfinito ma cresciuto; e l’unico rimedio all’invecchiamento è la trasformazione come crescita. Ci sono gli studenti, certo, e, al di là di ogni retorica, la loro fame di significato è sempre emozionante, e impegnativa. Comporta una grande fatica non considerarli solo forza lavoro in formazione, come i modelli culturali dominanti ci suggeriscono di fare, ma innanzitutto persone, persone in cerca di sé e di una collocazione nella vita e nel mondo, e poi cittadini e cittadine, cioè persone che fanno parte di una comunità più larga, della quale sono anche responsabili. Un’università dev’essere un luogo in cui sia dunque possibile sperimentarsi come persone, come cittadini e solo infine come futuri lavoratori. Insieme a colleghe e colleghi, abbiamo provato a fare questo, e a intendere in senso esteso la nostra funzione pedagogica.

Poi c’è la questione del potere, in tutte le sue declinazioni sgradevoli: il potere subìto e quello imposto; il potere dei simboli e quello della facoltà di salvare o dannare, nelle piccole cose quotidiane e qualche volta nelle grandi; il potere come manipolazione e come falsificazione, come disonestà intellettuale e come aggressione squadristica (c’è lo squadrismo accademico, altro che); il potere come servilismo, come ipocrisia, come trasformismo, come adulazione. Certo, ci sarebbe anche il potere come possibilità e come servizio, il potere attento alle vite degli altri. Mi piacerebbe dire che ho incarnato il secondo e rifuggito il primo; ma mi sembra più onesto e realistico dire che ci ho provato, e che ora devo verificare quanti danni ha comunque ricevuto la mia “anima”.

 

NB! Potete leggere in traduzione bulgara uno stralcio del libro del prof. Pietro Cataldi Dante e la nascita dell’allegoria nell’archivio di Literaturen vestnik, n.3 del 2009.

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